L’AQUILA – “La new economy e la smart city sono nuovi modi che hanno la velleità di realizzare vecchie promesse. Una utopia già fallita. Anche per questo ho detto basta con San Francisco e la Silicon Valley. E sono qui a Fontecchio, una scelta ripagata dal fatto di poter camminare fino alla piazza principale, aprire un rubinetto pubblico e riempire la mia borraccia con buona acqua potabile. Non è una cosa che abbia mai vissuto negli Stati Uniti né in Perù, dove sono nato”.
In Abruzzo e a L’Aquila in ricostruzione c’è chi guarda come ad un mito futuribile il modello planetario di smart city super tecnologizzata e con servizi iper-connessi in 5g, come pure il diventare una piccola Silicon Valley degli Appennini, per quanto riguarda il capoluogo. In Abruzzo e nell’aquilano tanti paesi sono stati svuotati dall’emigrazione, in molti casi verso gli Stati Uniti.
C’è chi invece da quel sedicente paradiso è andato via, venendo “da viaggiatore e non da turista”, a vivere a Fontecchio, piccolo paese dal glorioso passato medioevale in provincia dell’Aquila, dove la vita lenta, semplice e a contatto della materia gli è apparsa ben più “smart”, rispetto a qualsiasi dispositivo tecnologico di ultima generazione.
E il percorso di vita del regista, docente universitario e artista interdisciplinare, Sebastian Alvarez, 43 anni, originario di Lima in Perù, dove ha vissuto fino a 17 anni per poi trasferirsi in Brasile per studiare comunicazione sociale e filosofia. Dal 2001 in poi ha vissuto negli Stati Uniti, per un lungo periodo a San Francisco. Si è laureato in arte interdisciplinare e in arti sceniche alla School of the Art Institute di Chicago, proprio nella frontiera planetaria della new economy, per la presenza nella vicina Silicon valley, sede legale delle maggiori multinazionali dell’alta tecnologia, dell’innovazione, e dei social media.
Poi quest’anno la clamorosa decisione di trasferirsi a Fontecchio raggiungendo l’amico di vecchia data dell’artista Todd Brown che nel piccolo borgo colpito dal sisma del 2009 ha fondato nella sua stessa abitazione il “Fontecchio International Airport”, una sorta di laboratorio, spazio espositivo e luogo di accoglienza per viaggiatori e artisti. Nell’intervista ad Abruzzoweb, le ragioni profonde della scelta di Sebastian, provvisoria, come tutto lo è nella nostra vita.
Sebastian, un passo alla volta, cosa ci puoi raccontare prima di tutto degli States e di San Francisco e della tua vita in città così diversa da quella che ora conduci?
In generale, ho un rapporto complicato con le città. Mi lasciano perplesso e mi alienano allo stesso tempo. A seconda della loro vitalità, sento i paesaggi non urbanizzati più vicini al mio cuore. La prima cosa che mi ha colpito appena arrivato a San Francisco è stata la topografia collinare della città, così come il fatto che l’intera città sia stata eretta sopra enormi dune di sabbia. Ho iniziato a insegnare al San Francisco Art Institute, una delle più antiche scuole d’arte d’America, impartivo delle lezioni che erano un insieme di arti sceniche e studi urbani. Attraverso una lezione “nomade”, ho potuto fare delle ricerche sulla storia naturale e sociale della città. Durante questo periodo, ho invitato geologi, urbanisti, architetti, storici, attivisti e artisti di diverse classi sociali per acquisire una comprensione trasversale della città. La prima cosa che ho notato è che a San Francisco c’è una separazione tra coloro che lavoravano per una delle aziende del gruppo Gafam Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft, e il resto della popolazione. Ed era incredibilmente strano camminare nei quartieri finanziari e sperimentare la radicale segmentazione della ricchezza e dell’estrema povertà.
Che impatto ha avuto dunque la Silicon Valley e in generale la new economy sulla vita quotidiana?
Il fatto che io stia usando un computer Apple dal design accattivante per scrivere, e che usi Google Translate per essere in grado di comunicare con voi sono degli esempi degli impatti vantaggiosi della Silicon Valley. Essere in grado di usare un software per esprimermi è molto comodo, ma anche un “privilegio” che altri non hanno o non vogliono. Ricordo che quando mi sono trasferito negli Stati Uniti, sono stato socialmente alienato perché parlavo come Tarzan. Era molto frustrante avere idee completamente sviluppate che non riuscivo a comunicare verbalmente. Fare arte era una delle terapie che usavo per affrontare questa frustrazione. È innegabile che la Silicon Valley ha avuto un successo incredibile nell’esacerbare le nostre contraddizioni sociali, ma anche nel diffondere delle possibili soluzioni su scala globale. Tuttavia, questi obiettivi non sono a costo zero. Con la forte diffusione delle nuove tecnologie c’è un enorme incentivo commerciale per far sì che le persone vivano in delle bolle e in una realtà atomizzata. In generale, gli Stati Uniti sono un’economia che produce e fornisce sogni, intrattenimento di massa, pubblicità, merchandising e marketing. La maggior parte delle persone, dei consumatori, hanno un disperato bisogno di esperienze eccitanti, sensazioni estreme, gratificazione immediata e feedback istantaneo. L’idea della Silicon Valley è nata durante la Grande Depressione ed è stata implementata durante la Seconda Guerra Mondiale, dallo sviluppo della tecnologia militare. La Santa Clara Valley, ora “Silicon”, passò dall’essere una vasta area agricola al sedime di grandi imprese della microelettronica e semiconduttori che abbiamo oggi. Si è passati dalle albicocche agli iPhone. I lavoratori della terra, molti i messicani, si trasferirono nelle città, ad ingrossare le periferie dei senza lavoro. Il divario della ricchezza negli anni si è allargato enormemente. Il covid ha messo ora definitivamente allo scoperto le profonde divisioni e disuguaglianze. Molte persone vogliono che la loro tecnologia sia più veloce, più piccola, più leggera, e non gli importa delle conseguenze nascoste.
Un esempio di conseguenza negativa?
Anche dopo la pandemia, i prezzi degli affitti di San Francisco sono ancora i più alti della nazione. L’attuale intreccio delle politiche neoliberiste su scala cittadina e un forte afflusso di capitali dall’industria tecnologica stanno costruendo il Tech Boom 2.0 di San Francisco. Accade però che le persone a basso reddito, gli artisti e i musicisti, la classe operaia, non possono più permettersi il costo della vita arrivato a livelli insostenibili, come inevitabile conseguenza di questo processo. C’è in atto una frenetica riconversione urbana che sta trasformando il paesaggio delle facciate vittoriane in lussuosi edifici per poche tasche, il traffico è intasato da navette private hi-tech. Questa mi suona come una “città stupida” piuttosto che “intelligente”.
Quale è il suo giudizio sul modello della smart city?
Le nozione di “smart city” è un nuovo modo di marchiare vecchie promesse. Mentre le città cercano continuamente di modernizzarsi, vengono commessi molti degli stessi errori del passato. Molte lezioni del passato ci insegnano che nessun ambiente urbano può essere convertito in un monumento futuristico attraverso iniezioni su larga scala di tecnologia e infrastrutture fisiche destinate a smussare le tensioni e produrre armonia. Ci sono sempre ripercussioni impreviste. Non sentiamo l’eco di utopie fallite come Brasilia, la capitale realizzata ex novo in Brasile. Altrove migliaia di lavoratori migranti, sono trattati come schiavi e manipolati con delle false promesse, per costruire mega-città in posti come l’Arabia Saudita, il Qatar, la Cina, e molti altri spazi urbani pianificati dalle visioni dall’alto dei funzionari del governo. Detto questo, non è che non si debba tentare affatto la realizzazione dei progetti utopici.
Lo smart working esploso non solo in Italia con la pandemia è un’opportunità da mantenere anche in futuro?
Se anche le nostre case diventeranno il nostro ufficio, allora siamo nei guai, in tempi in cui vita e lavoro non sono più distinguibili, o in cui libertà e alienazione sono molto simili. Penso a questo proposito alle distinzioni che la filosofa Hannah Arendt ha tracciato tra attività lavorativa, lavoro e azione nel suo libro “La condizione umana”. Per lei, l’attività lavorativa corrisponde a un bisogno fondamentale per sostenersi, come l’agricoltura, la preparazione del cibo, e così via. Il lavoro va invece oltre la soddisfazione dei bisogni immediati e corrisponde alla capacità umana di costruire e mantenere un mondo adatto all’uso umano, mentre l’azione è “l’unica attività che si svolge direttamente tra gli uomini senza l’intermediario delle cose o della materia, e corrisponde alla condizione umana di pluralità”.
Come sei arrivato in Italia e a Fontecchio?
Ci sono molte ragioni. Alcune sono chiare, altre sfocate. Forse il mio ricordo sfocato di aver visto L’Aquila terremotata nel 2009 in tv. Sono sempre stato attratto dalla ricostruzione, riparazione e restauro come concetti e metafore filosofiche. Chicago e San Francisco sono due città che sono state ricostruite. Chicago dopo un grande incendio e San Francisco dopo un terremoto. La ragione più chiara e recente è iniziata quando un buon amico mi ha parlato dei tanti paesi in via di spopolamento in Italia, altro tema per me importante. In quel momento, mi ero già trasferito da Oakland e vivevo a West Marin. Pochi mesi fa è divampato un grande incendio, una vera e propria piaga di quel territorio. Grazie alle condizioni favorevoli del vento e all’azione dei vigili del fuoco la mia casa si è salvata. Tuttavia, è stato per me il segno che era tempo di andare. E ho deciso di raggiungere a Fontecchio il mio vecchio amico Todd Brown, che avevo conosciuto alla Red Poppy Art House, un dinamico centro d’arte da lui fondato a San Francisco.
Quale è stata la tua impressione dell’Abruzzo e di Fontecchio?
Sembrerà strano, ma ha riguardato la sua acqua e come il passato e il presente vivono in simbiosi. Al momento, sono nella fase di ricerca del mio prossimo film su una città nelle Ande peruviane che è stata profondamente colpita dalle pratiche immorali di una società mineraria che ha inquinato le fonti di acqua naturale con livelli estremamente elevati di metalli pesanti. È per questo motivo che ha attirato immediatamente la mia attenzione il fatto di poter camminare fino alla piazza principale, aprire un rubinetto pubblico e riempire la mia borraccia con acqua potabile. Non è una cosa che abbia mai vissuto negli Stati Uniti né in Perù, dove sono nato. Le volte che ho bevuto da una fontana, ho sempre avuto un cattivo retrogusto. L’acqua di Fontecchio invece è buona. Spero di poter andare presto a camminare all’Aquila per capire meglio le particolarità della transizione da rurale a urbano di questa regione. Fino all’invenzione della macchina a vapore, il nostro senso del luogo è sempre stato definito dal nostro corpo. Il luogo ora non è più definito dallo sforzo della forza muscolare, e ho bisogno di sentire fisicamente un luogo con il mio corpo prima di avere un’impressione reale.
Che impressione ti hanno fatto le persone?
Mi sono sembrate molto simpatiche tutte quelle che ho incontrato, anche i poliziotti che mi hanno fermato una volta per aver fatto una foto a una telecamera di sorveglianza a L’Aquila. Questo è successo un giorno in cui stavo passeggiando in piazza Duomo fotografando le gru e la città in ricostruzione dopo il terremoto. Ho visto un uccello quasi in posa davanti a una telecamera di sorveglianza e ho scattato subito una foto. Pochi minuti dopo sono stato improvvisamente circondato da sei poliziotti che volevano vedere i miei documenti. Uno di loro mi ha chiesto di cancellare la foto che avevo scattato. Con mia grande sorpresa, avevo fotografato una delle telecamere di sorveglianza della Banca D’Italia. Negli Stati Uniti avrei rischiato di essere placcato con violenza da due poliziotti iper-muscolati pieni di steroidi.
Questi paesi minacciati dallo spopolamento possono avere un futuro?
Tutto ha un futuro con o senza di noi. Detto questo, penso che dipenda da fattori geopolitici diversi, così come dalle politiche statali e ambientali. Ci sono molti modelli sostenibili che potrebbero essere implementati, ma dipende anche dai comuni e dalle comunità. William Gibson, autore americano, ha detto che “il futuro è già qui, solo che non è equamente distribuito”. Possiamo vedere come Covid-19 ha reso evidenti molti degli svantaggi dell’ipermobilità e alcuni dei benefici del localismo E questo è un vantaggio, perché le idee di progresso oggi dominanti, che hanno portato all’abbandono dei piccoli centri, mostrano di essere superate. Da sempre del resto, sono le aree rurali che garantiscono alle città di avere un futuro. Il futuro dei paesi può passare secondo me anche da programmi forti e robusti per eliminare le emissioni di carbonio causate dall’uso di energia. Occorrono micro-reti produzione di energia rinnovabili e di stoccaggio, investimenti volontari, creazione di posti di lavoro locali e sviluppo economico locale sostenibile. Ciò che è chiaro è che non possiamo rimanere dipendenti da fornitori di energia e fonti di capitale distanti.
Infine: qual è la differenza tra un viaggiatore e un turista?
Il viaggiatore migra perché ne sente la necessità, il turista fugge perché può. Il turismo è un impulso ad uscire, invece di entrare per riflettere. La libertà e la mobilità sono da sempre state associate alla ricchezza, mentre la lealtà e l’ozio alla povertà. Le élite non hanno bisogno di lealtà, possono acquistarla e avere tutto ciò che vogliono. Per loro tutto è intercambiabile. Il potere dei diseredati è legato a un luogo, per cui essere dislocati disarma radicalmente i poveri. Per i ricchi, questo viene vissuto come una bella vita. Amano volare in giro per il mondo ad acquisire esperienze. Gli indigenti hanno invece sempre bisogno di essere impegnati e radicati in un luogo.