IL FUOCO, IL DONO, IL CALORE DELLA COMUNITÀ: LE FESTE DI SANT’ANTONIO ABATE IN ABRUZZO

Gennaio 15, 2023 14:42

L’AQUILA – Torneranno il 16 e 17 gennaio, in decine e decine di paesi e città di Abruzzo, a rischiarare la notte con i fuochi dei falò, delle farchie e dei torcioni, le feste dedicate a Sant’Antonio Abate.

Tra i più popolari e più amati tra i santi, vecchio barbuto e gioviale, con al fianco il fedele maialino con il campanello, patrono dei macellai e salumai, dei contadini e degli allevatori, protettore degli animali domestici, celebrato in feste carnascialesche e gaudenti, dove il vino scorre a fiumi, e gli indiavolati organetti e tamburelli fanno ballare il popolo in un abbraccio dionisiaco, i canti a lui dedicati scaldano il cuore.

E viene dunque da chiedersi cosa penserebbe il vero Sant’Antonio Abate, stando alla biografia di Sant’Atanasio, vescovo di Alessandria, suo discepolo, se resuscitando dopo 1.700 anni, si ritrovasse in una di queste feste a lui dedicate, da santo eremita nel deserto d’Egitto quale era, che, donato tutto quello che possedeva ai poveri, campò 105 anni, dedicandosi alla preghiera e al digiuno, amante del silenzio e della solitudine, vegano ante litteram, invasato del divino e per cui la vita terrena era solo una preparazione a quella eterna, tanto da rinchiudersi in fortezza romana abbandonata sul Mar Rosso per 20 lunghi anni, nutrendosi solo con il pane che gli veniva calato due volte all’anno, e che resistette alle tentazioni del diavolo, che lanciava sul suo cammino pepite d’oro, che il santo scalciava via come vili ciottoli. Un uomo che tornava in disparte tra i suoi simili per contemplare la bellezza delle anime pure e semplici, per essere infine considerato il fondatore del monachesimo cristiano e il primo degli abati.

Molto dunque va  spiegato della figura di questo affascinante santo, vissuto dal 251 e 356 dopo Cristo   sul senso di una devozione particolarmente viva e diffusa proprio in Abruzzo, e che ha ispirato grandi opere d’arte come quelle di Giovanni Battista Tiepolo, Hieronymus Bosch  Paul Cézanne, Max Ernst e Salvador Dalì e scrittori come Gustave Flaubert.

L’occasione è stata offerta dal convegno, che si è tenuto a Collelongo, in provincia dell’Aquila, organizzato dall’Associazione Sant’Antonio Abate La cuttòra, dal Comitato Festa di Sant’Antonio Abate, dal Comune di Collelongo e dalla Parrocchia Santa Maria Nuova, dedicato alla salvaguardia e valorizzazione del patrimonio immateriale delle feste di Sant’Antonio Abate, a cui hanno preso parte Francesco Cerone, presidente del comitato Festa di Sant’Antonio Abate di Collelongo, l’archeologo Antonio Priamo Manna, la docente e studiosa di cultura contadina e di repertori musicali della tradizione orale, Omerita Ranalli, il professor Ernesto Di Renzo, il direttore dell’Istituto centrale per il patrimonio immateriale (Ipci) Leandro Ventura.

Evento che ha avuto la finalità di rilanciare, alla presenza di  Vincenzo Capuano, presidente  della Rete italiana per la salvaguardia delle feste di Sant’Antonio Abate, l’obiettivo di arrivare un giorno ad ambire al riconoscimento di patrimonio immateriale dell’umanità dell’Unesco. Ad oggi in Italia aderiscono alla rete 21 feste, e in Abruzzo per ora solo quelle di , solo per citarne alcune.

Intanto a svelare l’arcano dell’epigenetica di un culto popolare di Sant’Antonio abate è stato il professor Di Renzo.

“La figura di Sant’Antonio Abate – spiega Di Renzo – è al centro di una avvincente storia di  folklorizzazione, che lo ha fatto diventare da ieratico eremita a santo carnale, simbolo di abbondanza, protettore degli animali e baluardo contro le epidemie e malattie, amato in particolare nelle comunità rurali. Punto di svolta è stata la nascita, a fine dell’anno Mille in Francia, dei  canonici regolari di Sant’Antonio di Vienne, un ordine ospedaliero. che curava in modo particolare la dolorosa eruzione cutanea conosciuta come fuoco di Sant’Antonio,  provocata in particolare dall’ingestione di segale cornuta, ovvero contaminata dal fungo Claviceps purpurea, che era il cibo dei poveri che poteva provocare anche delirio, allucinazioni e comportamenti violenti. Gli Antoniani ottennero il permesso dal Papa di poter dunque allevare maiali, segnalati con un campanello, anche in città dove ad altri non era consentilo, perché sporcavano e spaventavano i cavalli. Allevamenti necessari perché con il grasso di maiale producevano unguenti e preparati medici. Ecco dunque spiegato il nesso del santo con il fuoco, con le tentazioni demoniache e le visioni, e con il maiale. Un esempio di epigenetica, e la conferma che   le tradizioni si devono evolvere e adattare, altrimenti scompaiono”.

Una festa, insomma ricca di storia e significati, e che, si è accalorato Vincenzo Capuano, merita di essere valorizzata, costituendo appunto una rete nazionale.

“Fare rete significa in primis condividere le buone pratiche, ad esempio il coinvolgimento delle scuole e delle nuove generazioni nell’organizzazione di una festa che dobbiamo tramandare ai posteri, significa imparare gli uni dagli altri le migliori soluzioni nell’organizzazione degli eventi, saper lavorare alla documentazione,  e fare massa critica per la  promozione e anche per la ricerca di finanziamenti”, ha spiegato Capuano.

In particolare la rete ha come obiettivo quello di “contribuire alla diffusione e all’applicazione dei principi della “Convenzione Unesco per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale”, adottata a Parigi il 17 ottobre 2003, “contribuire alla diffusione e all’applicazione dei principi della “Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul Valore del Patrimonio Culturale per la Società”, adottata a Faro il 27 ottobre 2005”, e “mettere in campo azioni di accreditamento della Rete presso le istituzioni subnazionali, nazionali e internazionali preposte alla salvaguardia e alla valorizzazione del patrimonio culturale immateriale”.

Omerita Ranalli, che curato il progetto “Feste dei fuochi in Abruzzo”, ideato da Antonella Crudo per la Sabap Abruzzo e finanziato dall’Istituto centrale per il patrimonio immateriale (Icpi), ha poi spiegato che “quello di sant’Antonio non è un rito pagano, ci sono millenni di storia cristiana in mezzo, ad aver cancellato eventuali retaggi.  La sua attualità è quella di creare comunità, e la costituzione di una rete, in Abruzzo, consentirebbe di valorizzare e rendere ancor più affascinanti e ben organizzate e condivise le feste di sant’Antonio, che si celebrano spesso negli stessi giorni in paesi anche vicini anche pochi chilometri, superando così campanilismi e autoreferenzialità che non hanno più senso di esistere”.

Altro aspetto fondamentale delle feste di sant’Antonio, in tutta Italia è la preparazione e conseguente distribuzione gratuita di granaglie bollite, offerte, oltre che ai
famigliari, ma anche a bambini, poveri,  pietanza detta nella Valle Peligna: “ciàciotte” o “granate”, nella Marsica “ciceròcche”, nella valle Subequana “ranati”, solo per restare in provincia dell’Aquila, nel vicino Molise “r’sciusc”, in Puglia “chenidde”. A Scanno invece si distribuiscono le “sagne con la ricotta”, pasto che veniva offerto agli indigenti del paese, proprio a Collelongo anche la “pizza roscia”, cotta sotto la cenere, composta da un impasto di farina di grano e di mais, condita con salsicce, ventresca e cavolo ripassato in padella.

E ha rivelato Antonio Priamo Manna, nella sua densa relazione: “L’offerta è attestata nelle aree italo albanesi e grecaniche del Mezzogiorno in occasione dello Psycosabbaton, commemorazione dei defunti, dove avviene la preparazione di un misto di grano e legumi bolliti, detto ‘cuccìa’ consumato in privato o offerto ai bambini e ai poveri questuanti, che lo richiedevano ‘per l’anima dei morti e per i bisognosi’. I rituali ortodossi di commemorazione dei defunti prevedono, analogamente all’antica offerta rituale della panspermia, in occasione dello psycosabbaton e in altre ricorrenze religiose, la preparazione e il consumo di  un misto di grano bollito, addolcito, nelle più recenti consuetudini, con zucchero a velo. A livello eziologico sembra esserci una stretta la connessione con il mondo ctonio, come specifica anche l’antropologo Alfonso Maria Di Nola, il quale afferma che nell’atto di quest’offerta rituale vi è un richiamo alla credenza nel ritorno dei morti”.

Il fuoco, il maiale, il demonio e  le sue tentazioni le granaglie bollite. Fin qui tutto chiaro. Resta però sospesa laebdomanda di fondo: perchè questa festa è così sentita?

Suggerisce una risposta il professor Di Renzo: “da cosa deve oggi proteggerci, più di ogni cosa  Sant’Antonio Abate? Dalle forze disgregatrici, dallo spezzarsi dei rapporti sociali. La sua benedizione e il suo dono sono oggi il calore sociale, il piacere dello stare assieme, il flusso di senso di cui abbiamo bisogno, in quanto esseri empatici. La festa di Sant’Antonio è  teatro popolare, una rappresentazione collettiva. La distribuzione del cibo, il fuoco intorno a cui ci si stringe, serve di creare il senso del noi, dell’appartenenza, celebra una identità”.

Nell’epoca degli anacoreti digitali, della fuga nel virtuale e nelle bolle mediatiche, delle relazioni sociali mediate da un schermo, piace credere dunque che Antonio Abate, santo eremita, sarebbe contento di vedere, nella festa a lui dedicata, gli umani provare gioia nel far parte di una comunità, assaporare la pienezza del noi.