L’AQUILA – “Tu mi chiedi che significa abruzzare? È girare a casaccio per i paesi, parlare con la gente, vedere cose, scoprire. L’Abruzzo ha una bellezza umile, poco vezzosa: bisogna impegnarsi per scovarla”.
Il neologismo, che potrebbe avere ben maggior successo dell’ingenerosamente vituperato “petaloso”, lo ha coniato Gino Bucci, 30 anni di Martinsicuro, formatore nelle scuole e scrittore, divenuto una celebrità con la sua pagina social L’Abruzzese fuori sede, (“Mi chiamo Gino, so lu fije di mammà, qua si parla di Abruzzo e di varie pazzità”), che conta ben 210mila follower. Una notorietà conquistata con la sua genuina e a tratti geniale vis comica, che non ha usato però per vendere scarpe, mutande e aria fritta on line, come gli acclamati influencer, o scroccare cene agli chef stellati in cambio di selfie, come i voraci food blogger.
Semmai, in decisa controtendenza, ne ha fatto leva per promuovere quella che è la sua vera passione, il poetare, e la sua opera prima, “Rime toscibili”, sono già diventate un caso letterario, fregiandosi anche della prefazione e della affettuosa dedica di ben due affermati scrittori Premi Campiello, abruzzesi come lui, rispettivamente Remo Rapino e Donatella Di Pietrantonio.
Che Bucci sappia pizzicare le corde del cuore degli abruzzesi, anche non frequentatori delle belle lettere, se ne ha avuta prova a Libri nell’entroterra, festival di San Benedetto in Perilis, paesino dell’entroterra aquilano, arrivato alla terza edizione, grazie alla solare determinazione e all’inventiva di Paolo Fiorucci, il Libraio di notte, anche lui poeta, e che si è meritato la notorietà grazie ad una piccola libreria aperta a tarda ora in una piazza della vicina Popoli.
Nello stracolmo giardinetto di San Benedetto in Perillis, all’ombra del monumento ai caduti della guerra, loro malgrado, magistralmente interrogato da Amedeo Di Nicola – appassionato esperto di letteratura abruzzese, solo apparentemente minore – Gino Bucci subito si è schermito, “ma le mie non le definisco poesie, le volevo chiamare cose abruzzesi”.
Un pudore dei sentimenti, che Ennio Flaiano vedeva tra i difetti degli abruzzesi, dichiarato da Gino Bucci, del resto, sin dal titolo, in quel “toscibile”, altro neologismo. “Le rime sono toscibili – svela l’arcano Gino Bucci -, ovvero discutibili, confutabili. ‘Toscibile’, ‘intoscibile’, senza dimenticare l’avverbio ‘intoscibilmente’, sono termini parlatamente inventati da me, gli unici vanti della mia vita, e sto tentando di farli entrare nel dizionario italiano, come neoformazioni di derivazione dialettale, da ‘nin si tosce’”.
In attesa trepidante di un riscontro dall’Accademia della Crusca, prosegue Bucci, “il maestro Remo Rapino mi chiama spesso ma mi parla solo in lancianese stretto: capisco e non capisco. A leggere la sua prefazione sembra che io abbia scritto la Divina Commedia… ma mi pare davvero esagerato. Volevo fare una tesi sul Serafino aquilano, poeta del ‘400, bollato come un poeta mediocre, mi sono letto tutte le sue cose e devo dire che non è malaccio”. Dalla poesia antica a Guido Gozzano, passando per Modesto Della Porta: “attualmente nella mia vita ho tre passioni, l’Abruzzo, le rime e le rime sull’Abruzzo. Diciamo che le rime in metrica per me sono come il sudoku, mi ci diverto. Stapposte”.
Tornando all’altro neologismo, ‘abruzzare’: un verbo che potrebbe stare a significare l’esperienza di un archetipa abruzzesità, che però ti devi andare a cercare e nello stesso tempo devi già portarti già dietro. Ad esempio, provare la “nostalgia delle offese”, che sono un modo di volersi bene, una conferma di fraterna confidenza: “si nu moccicabrode”, “si nu scaldanucelle”, “sciccise la zappe”.
L’esaltarsi per le perle di saggezza popolare, e nel libro ce ne sono a iosa riportate, come “meglio essere pecore che rustelle”, ineccepibile dal punto vista ovino, risposta al virile e stentoreo “meglio un giorno da leone, che cento da pecora”.
E ancora, commosse elegie dedicate ai piatti d’Abruzzo: pummadore, pane e uje, pasta e fasciule, pallotte cace e ova, torrone morbido dell’Aquila, calcionetti e pupe e cavalli.
Per non dimenticare la nostalgia dei grandi seni delle nonne, “che nella mia mente dovevano essere per forza grandi, perché erano necessari per tagliare il pane in petto”. Il ricordo del padre che “mi si mbarate a campà, senza voce, a furije d’ucchiatacce”.
Per arrivare ad una poesia “A mia madre”, che non possiamo esimerci dal pubblicarla integralmente.
“È belle lu cambà ‘ngambagne, sfiziuse lu magnà e lu beve, è bone lu pane di Spagne, ‘ustuse quande fa la neve. Ma fra li cose di lu monne, una sole è fregne addavere: mammà ritte, mbacce a li fronne, nghi l’ucchije rosce di culere. ‘Ije ti so’ fatte, ije t’arimagne! Ti trite nda lu sale fine! ‘Ssa callare nin s’arecagne: ‘sciccise pure la mammine! E ngule a mammete che so’ ije! Che te puzza ‘ngarrà li dinde! Si lu chiù sceme di la famije, lu chiù sciape di li parinde! Mo faceme li cunde leste, se patrete già t’ha crepate, ije ti dinghe tutte lu reste, ti vatte ‘ngime, sta parlate.” La sfurijate beh, preste ha scorte, mammà ha sbianchite e s’ha fermate; zitta zitte, nghi l’ucchije storte, nu suspire: ‘… ma si magnate?’”
Sulla scia di Fosco Maraini, padre di Dacia Maraini, e della sua Gnosi delle fanfole, Gino Bucci si è financo cimentato con esercizi metasemantici, ovvero “cazzeggi linguistici” e poi con ingegnosi pastiche, con i nomi dei paesi d’Abruzzo, “con i tuoi Atri capelli Montecorvino, tu che diScerni tra un Montenerodomo e un Monteodorisio, vorrei Basciano in un Alba Adriatica, perchè Teramo”.
“Provengo da un luogo periferico del mondo – racconta Bucci – , Martinsicuro, e ho una visione d’insieme e senza campanilismi; amo girare i paesi d’Abruzzo, per trovare storie, ovunque mi sento a casa. Ho un feticismo per le frazioni e le contrade, come Inciampa La Notte, pseudo-frazione dell’Aquila: nome molto poetico, lì una volta c’era una cantina… E andando a Guardiagrele, a mangiare le sise delle Monache, un dolce che fanno solo lì, in una stradina ho scoperto la casa di Modesto della Porta e me ne sono innamorato”.
Introdacqua, invece per Bucci è soprattutto Pascal D’Angelo , poeta nato nella conca peligna, campato a cipolle che la nonna “arrostiva tra maghi, risse e poveri racconti”, e che da adolescente emigrò in America con il padre, lavorando come manovale; lì restò anche quando il padre decise di tornarsene in Abruzzo. Con il sogno di fare il poeta, ignorato per lungo tempo, e quando finalmente la gloria lo accarezzò, il poeta fuggì da essa: “Fra scacchi e un lavoro occasionale, in marzo risolvesti ogni questione: fu Pascal, ma in Abruzzo fu Pasquale, poeta della pala e del piccone”.