L’AQUILA – “Dimensioni 200x1oo centimetri. Un paesaggio abruzzese. Altopiano dei Navelli. Fiori, alberi e sorgenti. Montagne, campi di grano. Luce mediterranea, Messico e nuvole, coperte peruviane, antichi simboli precolombiani, i colori di una casba magrebina, un pizzico di Claude Monet, e di Chuck Close quanto basta. Amore per la propria terra, per tutte le terre del mondo”.
A margine di una mostra al convento di San Colombo di Barisciano, in provincia dell’Aquila, si giocava ad immaginare quali potessero essere gli input e i comandi da impartire agli avveniristici programmi d’intelligenza artificiale “text to image” come Midjourney, capaci di trasformare un testo in un’immagine, ovvero di creare immagini in base a istruzioni scritte. In questo caso per fargli stampare un nuovo quadro di Callisto Di Nardo, con un comodo click, senza che lo stesso dovesse più arrovellarsi, inventarsi qualcosa di mai visto prima, e sporcarsi le mani e i vestiti con tempere e pennelli, e dedicarsi a cose più serie.
Ma si convenne che fosse da escludersi la possibilità di riprodurre quel non so che di unico e irripetibile che Walter Benjamin chiamò “aura”, la parola che oggi più che mai occorre comprendere nel suo abisso di significato, per stabilire la differenza tra un uomo e una macchina, nell’era della riproducibilità tecnica.
Chissà, forse ingenuamente, perché poi di fatto già ora le immagini di Midjourney in molti casi sono indistinguibili da quelle realizzate da un essere umano, e ci sono già stati casi di concorsi d’arte vinti con opere “A.I. generated”, e già il programmatore si sostituisce all’artista. Come ha scritto Vanni Santoni su Internazionale, “è difficile stabilire con precisione quanto un’opera generata da un’intelligenza artificiale sia merito del suo ‘committente’, il prompter, cioè chi digita il testo di partenza e preme il tasto invio. Questa persona è un’artista? Di certo non disegna né dipinge: scrive una stringa di testo (e ciò la rende subito più simile a un programmatore). Cosa sia esattamente, però, ancora non è chiaro”.
Un tema affascinante, che racconta molto di cosa stanno diventando gli umani contemporanei, che temono financo di essere sostituiti da una loro protesi, perché questo è nell’essenza un computer, al pari di una clava o di un ombrello.
Callisto Di Nardo, bariscianese doc da 65 anni, una vita da grafico, pittore e viaggiatore, taglia corto, poco avvezzo al filosofare, limitandosi alla sua personale e concreta esperienza.
“Quello che penso è questo: a marzo sono andato con la mia famiglia ad Amsterdam a vedere la mostra di Jan Vermeer, immenso pittore del ‘600 olandese. È stato commovente trovarmi di fronte ai quadri originali di un artista di quel calibro. Vedere le pennellate e pensare che si trattava del suo gesto, in quel momento creativo, nella ricerca di un effetto pieno di atmosfera e di sentimento, è stato edificante e questo è lo scopo dell’arte: elevarsi al di sopra delle nostre piccolezze quotidiane”.
In sintesi: “per vedere delle opere digitali non mi sarei neanche alzato dal letto la mattina”.
Prosegue poi, parlando della sua genesi della sua arte, dei suoi paesaggi, che esplodono di colore, e spaesanti, “l’intimità con la mia terra e con il mondo vegetale, l’ho forse sviluppata nei lunghi mesi in cui lavoravo nei rimboschimenti. Un forte stimolo è arrivato nei primi anni ’80 grazie all’amicizia con Sandro e Carla Conti e la frequentazione della loro casa studio a Barisciano. Ma sono stati i viaggi che ho fatto in Perù, in Bolivia, in Guatemala e in Cile, e poi in Messico, e in Nord Africa, a farmi vedere il paesaggio della mia terra con occhi nuovi”.
Ed ecco dunque svelato il segreto dei suoi quadri: paesaggi luminosi e sciamanici, che esplodono di colori, ma che andando a vedere i dettagli, sono una foresta di simboli, grafie, segni, che come nell’impressionismo vanno a fondersi in immagini compiute, ma solo nel macrocosmo della percezione finale, nella sintesi a posteriori, come un coro fatto di tante voci, canti e controcanti.
“Il bagaglio che mi sono portato dietro da questi viaggi – svela l’arcano Callisto Di Nardo – è il cielo del Messico, la luce delle foreste, quello che ho visto nei siti archeologici, a Tulun, Chicheniza e Tical, i mille colori dei mercati, le decorazioni degli abiti e delle coperte”.
Uno stile dunque che richiama almeno nella tecnica e nella progettazione, quella di un artista e fotografo molto amato da Callisto Di Nardo, l’americano Chuck Close, celebre per i suoi enormi ritratti che sono la sintesi visiva di mosaici di unità atomiche grafiche, un puzzle fatto di centinaia di micro-dipinti astratti.
Negli anni ’30 Benjamin, con l’avvento dell’industria culturale e del cinema, ovvero dei nuovi mezzi per riprodurre un’opera d’arte in qualsiasi tempo e luogo, sosteneva che ciò genera la perdita dell’unicità dell’opera d’arte, espressa con il concetto di “aura”. Da evento irripetibile, da presenza sacra in un determinato luogo quale era, infatti, l’opera si trasforma ora continuamente, attraverso la moltiplicazione delle riproduzioni. Benjamin non poteva immaginare certo che ora non solo le nuove tecnologie posso riprodurre all’infinito una opera esistente, ma possono produrla ex novo, nello stile richiesto, sostituendosi all’artista.
“Non lo nego – spiega Callisto Di Nardo – questo mondo mi affascina, ma non vedo poi tutta questa minaccia. Per me, ripeto, la vibrazione di un quadro vero, di un lavoro diretto dell’uomo, con le sue imperfezioni, passioni, debolezze non potrà mai essere riproducibile. La nostra anima, e il mondo che ci circonda è infinitamente più complesso e imprevedibile, rispetto a quello che si può programmare con un computer”.
Un altro importante filosofo, Henri-Louis Bergson, ha distinto il tempo spazializzato dalla durata, ovvero l’implacabile ticchettio di un orologio, con un minuto che dura spietatamente 60 secondi, rispetto alla nostra esperienza interiore del tempo, per cui un minuto può volare in un battibaleno, o durare un’eternità.
“Per realizzare alcuni dei miei quadri – concorda Callisto Di Nardo – ci ho messo due mesi, con tanti ripensamenti e riscritture. E l’opera è cambiata con me, seguiva i tormenti della mia anima, le spirali dei miei pensieri. Credo che l’arte abbia a che fare con l’immergersi del tempo, come esperienza interiore, sottratta dalla routine. Un computer non potrà mai avere esperienza di tutto ciò. A noi umani, che abbiamo capacità di calcolo infinitamente inferiore rispetto all’intelligenza artificiale, ci è rimasta almeno la consapevolezza di ciò che dà senso al tempo che viviamo, alla vita che ci è toccata in sorte”.