TRANSUMANZA E SPIRITUALITA’ DEI MONACI PASTORI. IN CAMMINO VERSO LA GRANGIA DI CAMPO IMPERATORE

Ottobre 22, 2023 6:47

L’AQUILA – Un paesaggio, spiega chi nelle parole sa entrare nell’intimo, è fatto non solo di territorio, ma anche di ambienti invisibili, di presenze impalpabili, di un passato che si fa presente, di ricordi, istanti e presagi.

Ed è questa presenza che in una assolata domenica di ottobre ha accompagnato i partecipanti dell’escursione ai ai ruderi della grangia cistercense di Santa Maria del Monte, in un angolo discreto dell’altopiano di Campo Imperatore, in provincia dell’Aquila, nel comune di Santo Stefano di Sessanio.

Un luogo poco conosciuto, a 1.619 metri di altitudine, in cui  si possono ancora immaginare monaci biancovestiti, con l’avellano in mano e il crocifisso al collo, al fianco dei laici pastori, in cammino anche loro per la Puglia, con migliaia di pecore, in quel viaggio epico che oggi chiamiamo transumanza.

Ad accompagnare l’allegra e vociante brigata di escursionisti della domenica, che hanno raccolto l’invito della Pro loco di Santo Stefano di Sessanio e dall’associazione Arcoiris di Chiara Ciaglia e Luigi Calabrese, nell’ambito del ciclo di visite ed esperienze “Il mondo dei cistercensi” è stato lo storico ed archeologo paganichese Alessio Rotellini, autore del monumentale volume “Transumanze e proprietà collettive”, e che ha raccontato passo passo, quello che le pietre mute e i pacifici pascoli hanno da raccontare, sullo spirito e la materia, la preghiera e il calcolo economico.

Le pietre della chiesa e dei due chiostri, uno per i monaci e uno per i conversi, di cui restano solo lacerti e mozziconi, recinti in pietra per contenere le greggi, una grande porta carraia, segno di potenza e benessere, pozzi ora coperti. E chissà quante altre testimonianze potrebbero essere riportate alla luce con mirati scavi archeologici, solo in parte effettuati, a fine anni ’90 e poi interrotti, tenuto conto della severa logistica.

“La grangia  – esordisce Rotellini – è stata costruita tra il 1212 e 1222 dai monaci cistercensi che avevano fondato nel 1198 l’abbazia di Santa Maria di Casanova a Villa Celiera, dall’altra parte del Gran Sasso, territorio ai tempi possedimento della potente diocesi di Penne, e su iniziativa della contessa Margherita di Loreto Aprutino. Uno dei primi insediamenti cistercensi in Abruzzo. Anche su questi altopiani ai tempi regnava Federico II di Svevia, che i monaci cistercensi aveva molto più a cuore dei frati francescani, per la loro capacità imprenditoriale, il loro unire la preghiera l’ingegno nell’introdurre innovazioni alla pastorizia e all’agricoltura. A beneficio delle casse del regno, e della sua crescita economica”.

E così i monaci, per concessione dell’imperatore, salirono su questo altopiano, per darsi alla pastorizia. A vivere nella grangia, si suppone, una decina di loro, affiancati da un altra decina di conversi,  fratelli laici che nelle comunità monastiche attendevano a servizi profani e ai lavori manuali. Nel nulla pieno di incanto dell’altopiano misero su per ben tre secoli, una fiorente attività di pastorizia, forte di oltre 4mila capi, tanto che narra la leggenda, dalla grangia a Villa Celiera correva una lunga canaletta da cui sgorgava una fontana di latte.

Alle pecore badavano ovviamente i conversi laici, mentre i monaci si dedicavano, oltre che alla preghiera, all’amministrazione e alla commercializzazione. I conversi avevano una vita ben più comoda rispetto ai colleghi pastori che vivevano sull’altopiano tutta l’estate, in baracche di legno, con tetti coperti di terra, per pascolare le pecore degli armentari di Santo Stefano, Calascio Castel del Monte, Paganica e altri borghi a valle. Con una dieta ben più povera rispetto a quella dei colleghi della grangia, fatta di solo pane, olio, formaggio, vino e carne secca di pecora, la micischia. Tutti i pastori, conversi e non, trascorsa l’estate sull’altopiano, partivano sul far dell’autunno per la Puglia.

“La loro era una vita durissima – spiega Rotellini -, questi pastori la famiglia la vedevano per un paio di settimane massimo l’anno, a primavera, tornati dalla transumanza. Per questo c’era il detto che i figli dei pastori nascevano a marzo. E c’era anche l’ossessione per la fedeltà delle donne, tanto che da documenti di archivio risulta che a inizio ‘900 da Castel Del monte fu cacciato il prete, accusato di essere stato a letto con più di una moglie dei pastori. Lo stesso avvenne più tardi, con un podestà fascista. Non a caso, tanti poeti transumanti, come Francesco Giuliani di Castel del Monte, raccomandavano in versi alle donne di non andare mai in chiesa”.

Allarga lo sguardo Rotellini: “questo paesaggio è stato plasmato dalla pastorizia, nella preistoria questi altopiani erano coperti da foreste di faggio e abete bianco, che nei secoli sono state tagliate per fare spazio ai pascoli. Le università, ovvero gli antichi comuni, con relativa autonomia gestivano i territori e stabilivano norme strettissime per tutela dei pascoli e di quel poco di bosco rimasto, la cui legna era fondamentale anche per scaldare i pastori nelle loro baracche, per cucinare e fare i formaggi. Ogni paese traeva guadagni enormi dall’affitto dei pascoli, per pecore e bovini”.

Va sottolineato che la parola transumanza è stata introdotta da un abate francese alla fine del Settecento, poi, agli inizi del Novecento, sono stati i geografi francesi a utilizzarlo in modo scientifico. Da noi si è affermata solo negli anni Settanta del Novecento.

“Ma la transumanza  – prosegue Rotellini – si è praticata da sempre, anche senza che ci fosse un nome ad indicarla, perché con questi numeri di capi, la pastorizia su a Campo Imperatore doveva per forza di cose prevedere un trasferimento in autunno delle greggi in territori caldi, dove non nevicava, come appunto, in questo caso, il tavoliere delle Puglie. Alternative non ce ne erano, mica si potevano costruire stalle per 2,5 milioni pecore…”.

Anche un tempo c’erano gare per affittare i pascoli, e a differenza di oggi non imperversava la speculazione dei titoli Agea, che consentono a “pastori solo sulla carta” lautissimi guadagni a valere sui fondi europei, società spesso di altre regioni e che non sono tenute a produrre carne, formaggio, latte e lana, in quanto la discutibile ratio del finanziamento è legata essenzialmente alla conservazione e manutenzione dei pascoli.

“Le aste per gli affitti erano a rilancio fino a quando una candela non si consumava completamente – spiega lo storico -. Avveniva a primavera, quando si poteva capire l’andamento della stagione, in base all’esito della transumanza in Puglia, alla mortalità dei capi e ad altri fattori che incidevano sul valore del pascolo E con i proventi degli affitti, le università potevano ridurre le tasse da versare al sovrano, in alcuni casi venivano annullate le multe a carico dei cittadini”.

La grangia di Santa Maria del Monte, prospera fino all’inizio del ‘400, fu poi abbandonata, divenne rudere e non fu mai più ricostruita, vinta dalla concorrenza dei grandi armentari delle città, nuovi centri di potere, e per il fatale tramonto dell’epoca dei cistercensi e del loro modello economico di frontiera.

Le pietre ora levigate dal vento e marezzate dai licheni, raccontano dunque anche un’altra storia, quella del declino della pastorizia e della civiltà della transumanza.

“Una data da ricordare è quella del 1611 – spiega a tal proposito Rotellini -. Ci fu infatti una grande nevicata sul tavoliere delle Puglie, che coprì per vari giorni i prati dove pascolavano anche le pecore abruzzesi. Una catastrofe, morirono 1,8 milioni di capi, i due terzi del totale. I pastori tornarono a piedi e da soli dai loro paesi, alcuni di loro si suicidarono, le famiglie piombarono nella miseria più nera. E accadde anche che molti grandi armentari, in particolare dell’Aquila, decisero di non investire più in una attività così rischiosa. Quasi tutti smisero di fare transumanza, abbandonarono la pastorizia, e si dedicarono ad altre forme di business. E i grandi armentari rimasero quelli del contado, come i potentissimi Cappelli di San Demetrio, con i loro quasi 20mila capi”.  E con in media dai 2.000 a i 5.000 capi anche i Palitti di Roio, i Colananni e i Cocciante di Rocca di Mezzo, i Ciarrocca di S. Stefano di Sessanio, i Frasca di Calascio, i Cialente di Lucoli, i Brancadoro, i Mucciante, i Sulli e i D’Angelo di Castel del Monte. Nell’Ottocento ripresero comunque l’attività anche i Rivera dell’Aquila.

Erano loro, ricchi, potenti, rispettati, ma infaticabili lavoratori e scaltri affaristi, gli Agnelli , i Ferrero e gli Armani dell’epoca. Basti ricordare che era una delle dimore dei Cappelli anche palazzo Ardinghelli, sede oggi del museo Maxxi.

La mazzata più poderosa arrivò con la crisi del mercato della lana, che era la vera fonte di guadagno della pastorizia, e questo con l’avvento, a fine ‘800, delle lane argentine, australiane e neozelandesi, che determinarono, per quelle abruzzesi, il crollo dei prezzi. Del resto, per rendersi conto delle proporzioni, in Abruzzo all’epoca sui pascoli del Gran Sasso c’erano 2,5 milioni di pecore, la sola Australia produceva lana da ben 100 milioni di capi. Una crisi irreversibile: la pastorizia ebbe una tenue ripresa con la Grande Guerra e con le politiche di autarchia del fascismo, ma il destino era segnato. Altro colpo di grazia è stato l’avvento dei formaggi industriali, che fecero concorrenza invincibile alle pizze di pecorino da 20 chili vendute soprattutto nel mercato romano. Pizze di pecorino, rivela Rotellini, che si cominciarono a produrre solo ad inizio del ‘900, prima, e per secoli, il formaggio stagionato per antonomasia, anche in Abruzzo, era il caciocavallo.

Declinava insomma una civiltà ed una economia che nei bollitori del latte dell’età del bronzo ha avuto le prime testimonianze e che visse una delle epoche d’oro anche sotto l’impero romano dove armentari come Gaio Cecilio Isidoro avevano greggi dalla bellezza di 250mila pecore. E c’è chi dice che nell’antica Roma i patrizi erano innanzitutto gli armentari a cavallo, i plebei i contadini ingobbiti sopra la terra.

E  ancora, l’inesauribile Rotellini, per far capire quanto la pecora secoli fa era davvero l’oro bianco d’Abruzzo, ricorda l’assedio di Rocca Calascio del 1494.

“La rocca si arrese agli aquilani, fedeli a Carlo VIII, che si mossero in armi, per ragioni legate all’utilizzo dei pascoli, contro Rocca Calascio, rimasta aragonese. Ma non assediarono l’inespugnabile maniero, bensì il vicino monte Cocozza, dove stazionavano 50mila pecore, minacciando di farle morire di fame, impedendo ai proprietari di portargli il fieno. E così  fu immediata capitolazione, senza colpo ferire e senza sguainare le spade: gli assediati consegnarono la rocca chiavi in mano agli aquilani”.

Le moto e le auto sfrecciano sulla strada che taglia come una lama l’altopiano, molte dirette a mangiare gli arrosticini e il formaggio alla brace nelle macellerie di Fonte Vetica. Un camminatore solitario contempla il monte Camicia, forse immaginando l’infinito dietro quel muraglione di roccia viva.

Ai piedi della grangia dei monaci, sui prati di Valle pacifica, così chiamata perché non soffia mai il vento, pascolano le mucche di una impresa pugliese. In autunno partiranno anche loro per il Tavoliere, in camion, lungo le rotte della nuova transumanza.