GLI ENIGMI DELLA BELLEZZA: VIAGGIO A CAPESTRANO, TERRA DI SANTI, GUERRIERI E CONTADINI

Aprile 10, 2023 7:51

L’AQUILA – “Gira intorno un fiume, il Tirino che scorre con lievi onde per prati rugiadosi argenteo. Con nitide onde e con gorghi non profondi allineando, O Silvano, cipressi teneri fin dalla radice…” In un frammento di una preghiera incisa 21 secoli fa su un colonna di travertino, i riflessi della bellezza della valle scavata nel cuore dell’Abruzzo, e nel corso dei millenni, dal fiume Tirino. Il Tritum flumen, lo chiamavano gli antichi romani, in quanto esso sgorga da tre sorgenti di acqua cristallina: Capodacqua, Lago e Presciano. Terra antica e fertile, dove il vento freddo e secco del Gran Sasso  incontra la calda ed umida brezza del mare Adriatico. Culla di santi, guerrieri e contadini. Alcova di misteri e leggende, attraversata nei secoli da conquistatori e pastori transumanti diretti in Puglia lungo i fiumi d’erba detti tratturi.

Questo ed altro racconta il documentario “Gli enigmi della bellezza”, realizzato dal regista Diego Lepiscopo, e con testi e ricerche a cura del giornalista Filippo Tronca, che Abruzzoweb propone in versione integrale. Passo dopo passo, scena dopo scena, come un invito ad una escursione virtuale nel giorno di Pasquetta, lunga decine di secoli.

CAPESTRANO E IL SUO CASTELLO

Cingono la valle una corona di borghi: Calascio, con la sua vertiginosa rocca che domina gli altopiani, e ancora Carapelle, Castelvecchio Calvisio, Castel del Monte, Ofena e Santa Lucia.

Lungo la via della lana, che sotto il torrione di avvistamento di Forca di Penne svalicava ad oriente la catena del Gran Sasso in direzione del mare.

A pulsare nel cuore della valle tritana, è però Capestrano, dedalo di viuzze tra nobili ed eleganti architetture medioevali e rinascimentali,  raccolte e coese intorno al possente castello e che evocano un quadro di Escher.

Castello Piccolomini fu costruito e progressivamente ampliato sui resti di un fortilizio medievale, del quale rimane la torre prismatica. Ad avviare l’opera Lionello Acclozamora, capitano del re di Napoli Renato D’Angio’, agli inizi del ‘400.  La proseguì Antonio Piccolomini, nipote di Enea Silvio Piccolomini, divenuto papa con il nome di Pio II.

Periodo forse di maggior lustro, per Capestrano e il suo castello,  fu il secolo e mezzo – dalla fine del ‘500 alla meta del ‘700 – durante il quale prosperò il principato  della leggendaria e potente famiglia fiorentina dei Medici, che si insediò nella valle tritana in virtù del fiorente commercio della lana, dei pellami, e dello zafferano.

Subì più di un assedio, il castello, e fu teatro nel corso dei secoli di molte battaglie.

Dove ora giocano i bambini, gli anziani parlano, i turisti si aggirano con il naso all’insù, ad ascoltare con attenzione si ode ancora l’eco delle urla belluine dei guerrieri, il fragore di cannoni e archibugi, lo scoccare delle frecce infuocate, il tintinnar di spade, il pianto delle madri.

Oggi ad assediare il castello ci sono solo distese di vigne, uliveti e campi ben coltivati. Pace e bellezza, tutta da scoprire.

IL GUERRIERO

Un mistero è da dove sia arrivato e chi esattamente fu in vita, Nevio Pompuledio, il guerriero di Capestrano.

Qualcuno ipotizza, con molta fantasia e interrogando la cabbala, che fu figlio delle stelle, atterrato da un lontano pianeta per fecondare e guidare l’umana stirpe.

Più realisticamente fu figlio di questa terra, un re guerriero del fiero popolo dei Vestini, che dominavano dalle vette del Gran Sasso al mare, e che contro i vessilli della lupa, all’alba dell’impero romano, ingaggiarono feroci battaglie, per poi scendere a patti e ottenere, al prezzo di tanto sangue versato, l’appartenenza alla città eterna.

La statua del guerriero è emersa da una tomba scoperta per caso, sotto un campo coltivato, nel cuore della valle.

Solo uno degli straordinari tesori restituiti dalla necropoli di Aufinum, risalente al neolitico, che fu poi italica e infine romana.

Un luogo sacro dove oggetti di una quotidianità perduta che accompagnavano i defunti nel loro ultimo viaggio verso l’ignoto, consentono ora agli studiosi di squarciare la cortina del tempo.

Dietro la maschera che ha celato il viso per l’ultimo viaggio, sotto l’elmo crestato dall’ampia tesa, lo sguardo del guerriero è solenne e ipnotico.

La spada dall’elsa finemente decorata è riposta nel fodero. Il petto è protetto da un’armatura a disco, le gambe da salde schiniere.

Il guerriero stringe in mano la scure sacrificale. I monili che lo adornano confermano il suo nobile lignaggio.

Sul sostegno un’iscrizione in lingua picena.  “Me, bella immagine, fece Aninis, per il re Nevio Pompuledio”, questa una delle possibili traduzioni.

Una copia della statua accoglie i viaggiatori all’ingresso del castello di Capestrano. L’originale è conservata al Museo archeologico nazionale di Chieti.

Tuttavia la presenza di Nevio Pompuledio aleggia ancora, a distanza di millenni, nella valle di cui fu sovrano.

SAN PIETRO AD ORATORIUM E IL QUADRATO MAGICO

Scrigno di misteri, al viaggiatore dall’occhio attento e dall’animo curioso, appare la chiesa di San Pietro ad Oratorium, che si incontra lungo il fiume Tirino.

Fu opificio di silenzio, preghiera e lavoro, dei potenti monaci benedettini di San Vincenzo a Volturno. Ad edificarla fu Desiderio, l’ultimo re dei Longobardi, su un tempio ancora più antico. I Normanni che fin qui estesero il loro regno, ne fecero poi un capolavoro di architettura.

Sotto il maestoso ciborio, l’altare pagano, che presenta ancora i segni delle bruciature dei sacrifici.

Nell’abside Cristo in trono tra gli evangelisti. E le diafane e severe figure dei ventiquattro vecchi dell’Apocalisse.

Navate, absidi e archi a tutto sesto disegnano segrete armonie matematiche. le misure dell’edificio sono infatti legate da precisi rapporti proporzionali legati al numero aureo.

Sulla facciata, scolpito su un concio lapideo,  il più intrigante degli enigmi.

ROTAS OPERA TENET AREPO SATOR: sono le cinque parole latine di 5 lettere ciascuna che è possibile leggere sul cosiddetto quadrato magico. A San Pietro ad Oratorium, diversamente che altrove, è incastonato, chissà perché, all’incontrario.

Le cinque parole compongono frasi che rimangono identiche se lette in ogni direzione. Oscuro è rimasto però il significato. “Il Creatore verso cui tendo sostiene con la sua azione le sfere celesti”, c’è chi ha ipotizzato, o forse  “Arepo, il seminatore, tiene con maestria l’aratro”.

Ma anche, c’è chi sostiene, “il Creatore tiene a mente il tuo operato” o “Il seminatore, con il carro, tiene con cura le ruote”.

Suggestiva è anche la teoria della crux dissimulata: anagrammando l’insieme delle lettere che compongono il quadrato magico si materializza infatti una croce, tracciata dalla parola PATERNOSTER.  La lettera A e la lettera O, indicano l’alfa e l’omega, il principio e la fine di tutte le cose.

C’è chi infine ipotizza che il quadrato magico sia uno dei codici esoterici che i cavalieri templari disseminarono in chiese, cattedrali e castelli.

La soluzione dell’enigma è  forse l’enigma stesso. Inciso sulla dura pietra, ma sfuggente e impalpabile come l’acqua, che invita a perdersi nei vortici infiniti dell’interpretazione.

SAN GIOVANNI DA CAPESTRANO

Vuole la leggenda che una grossa cassa di legno si arenò sulla spiaggia della costa abruzzese. Dentro di essa preziosi manoscritti, pergamene e bolle papali, e ancora una lente, una clessidra, una lucerna, una bibbia da viaggio, un bastone di legno dolce e un cappello di lana, calzari in cuoio consumati dalla tanta strada percorsa, una pianeta crociata ricamata in seta ed oro.

Oggetti che accompagnarono l’avventurosa esistenza di un santo guerriero, passato a miglior vita dopo aver salvato l’Europa cristiana dall’invasione dei terribili ottomani di Maometto II.

Giovanni da Capestrano il suo nome, altro grande figlio della valle tritana, santo patrono dei cappellani militari e dei giuristi. Che dopo secoli accende tra la gente di Capestrano ancora viva devozione che trova il momento più emozionante in una processione che si celebra ogni anno ad ottobre.

I contenuti di quella cassa, assieme ad altri preziosi testi antichi, cimeli e opere d’arte è possibile ora ammirare nel convento che Giovanni fece realizzare nella sua Capestrano, in cima ad un verde colle, e nell’annessa biblioteca che è fulcro di un centro studi di primaria importanza.

Fu Giovanni, nato nel 1386,  studente di diritto a Perugia, dopo esser fuggito da Capestrano a seguito di una violenta faida familiare. Venne imprigionato dopo la conquista della città umbra da parte di Braccio da Montone. Nel buio della cella gli apparve in sogno San Francesco d’Assisi e si accese in lui la luce della fede. Indossò il saio, e  in virtù del suo grande talento da oratore e da giurista, i papi di Roma lo nominarono inquisitore e diplomatico. Cominciò per Giovanni un instancabile girovagare durato decenni per contrastare in tutta Europa le eresie. Fu abile compositore di controversie tra principi e sovrani, mise pace tra città in guerra. Si batté contro la piaga dell’usura e della corruzione.

Fu proprio Giovanni da Capestrano, oramai anziano predicatore che batteva le terre di Transilvania, ad essere incaricato dal papa di reclutare quanti più uomini possibili, per dare manforte alla rocca di Belgrado, ultimo baluardo dell’occidente contro l’avanzata del potente  esercito di Maometto II, che nel 1453 aveva espugnato Costantinopoli.

Lo scontro fatale ebbe luogo nel luglio del 1456 e l’esito fu miracoloso.

I cinquemila uomini messi insieme da Giovanni, in buona parte contadini e piccoli proprietari terrieri, armati di fionde zappe e falci, si unirono al piccolo esercito del comandante ungherese Hunyadi, per resistere all’assedio delle armate ottomane, di numero di molte volte superiore.
Lo scontro fu terribile, ma Belgrado fu salva, e con essa l’Europa cristiana.

Giovanni contrasse la peste nel campo di battaglia intriso di sangue e  disseminato di morte, e si spense pochi mesi dopo nel convento di Ilok, nell’odierna Croazia.

Ultimo desiderio del santo fu quello di riportare nella sua Capestrano, in quella vecchia cassa di legno, i bagagli da frate errante, che predicò la pace e l’amore per il prossimo, ma ebbe in sorte quello di misurarsi con l’orrore della guerra.

IL FIUME TIRINO

Scorre lento, il fiume Tirino, tra fitti canneti e salici cinerei, lungo la valle culla di santi, guerrieri e contadini. Alcova di misteri e leggende.

Valle che oggi trova un rinnovato e straordinario protagonismo nell’accoglienza turistica, nella viticoltura e nell’agricoltura di qualità.

Grazie ad un sistema diffuso di ospitalità in dimore nei centri storici, e nei casali di campagna, la valle offre la possibilità a turisti provenienti da ogni dove, di riscoprire i ritmi lenti in un’ambiente incontaminato. Di praticare sport all’aria aperta. Di godere del piaceri del convivio.
Regine della tavola sono qui, a tale proposito, il gambero di fiume e la trota, il prezioso zafferano, e l’olio, profumato oro liquido di questa terra. Carni e formaggi, doni dei pascoli del Gran Sasso.

Apprezzati nel mondo sono i vini di straordinaria qualità. I vigneti rigogliosi che disegnano la valle sono i testimoni di una vocazione antica che si rinnova, coniugando passione, sperimentazione, rispetto dell’ambiente.

ll vino è la musica della terra, è stato detto. Suoi spartiti sono l’aria secca  e tersa, il terreno ciottoloso e drenante, la luce intensa e mediterranea, di questo angolo di mondo, incastonato ai piedi del Gran Sasso, il gigante che dorme, figlio della dea Maja, la Maiella, che lo contempla da lontano.