L’AQUILA – “Igp con carne straniera trasformata in loco, o arrosticino dop con carne rigorosamente abruzzese? Il dilemma che agita la politica regionale un merito ce l’ha avuto, ha acceso riflettori sulla grande crisi che vive la pastorizia, e ha reso evidente la necessità di un grande piano strategico che possa portare i nostri allevamenti fino a un milione di capi, dai poco più dei centomila di oggi, creando migliaia di posti di lavoro qualificati, riportando in auge un’economia radicata nel territorio che ha fatto grande l’Abruzzo nei secoli passati”.
A dire la sua, nello scontro politico ed economico in atto, sul marchio da adottare su uno dei prodotti più famosi d’Abruzzo, l’arrosticino di pecora, è a questa testata Nunzio Marcelli, economista e pastore che da 40 anni conduce un’azienda agricola con i suoi famigliari ad Anversa degli Abruzzi in provincia dell’Aquila, ideatore, insieme al compianto Gregorio Rotolo, dell’iniziativa ‘Adotta una pecora’ partita nel 2007 per sostenere la pastorizia e avere sempre a disposizione prodotti a filiera corta.
Prima di restituirgli la parola, è però opportuno entrare nel merito del dilemma citato: Confagricoltura e il potente settore dell’industria di trasformazione, che macina un miliardo di fatturato con 80 imprese e 12mila addetti, vogliono l’Indicazione geografica protetta (Igp), per la quale la carne di pecora basta trasformarla sul territorio regionale regione, con un determinato disciplinare, e si può usare anche carne proveniente dall’estero, ad oggi da Francia, Romania, Spagna, Irlanda e Paesi dell’Est. L’importante è infatti blindare il brand “arrosticino” e legarlo indissolubilmente all’Abruzzo, prima che qualcuno lo scippi. Ad oggi del resto, dall’estero arrivano ben 700.000 capi trasformati in Abruzzo per produrre arrosticini, mentre in regione vengono allevati solo 150.000 capi ovini, di cui però 130.000 sono utilizzati solo a scopo di latte.
Dall’altra parte c’è la Coldiretti, che vuole la Denominazione di origine protetta (Dop), e in questo caso la materia prima dev’essere rigorosamente allevata e macellata in Abruzzo. E va in questa direzione anche la risoluzione a firma del capogruppo di Fratelli d’Italia, Massimo Verrecchia, di cui si è discusso, e intorno a cui ci si è divisi in commissione regionale agricoltura la settimana scorsa, e che se approvata costituirebbe un’indicazione di indirizzo alla Giunta regionale. Verrecchia, per far fronte alla scarsità di materia prima, propone di attingere anche dagli allevamenti lungo le vie della transumanza, dunque anche dal Molise e Puglia, unite per secoli all’Abruzzodal tratturo Magno e altri regi tratturi.
Il dilemma è che delle due l’una, o l’Igp o la Dop, entrambi i marchi non sono possibili, e il vicepresidente della giunta regionale, con delega all’Agricoltura, Emanuele Imprudente, della Lega, propone di inserire un’aliquota di prodotto 100% made in Abruzzo all’interno del futuro marchio Igp.
E in fondo, una terza via, la propone anche Nunzio Marcelli
“Sicuramente la Dop rappresenta una maggiore tutela della produzione locale, produzione che oggi però è del tutto insufficiente per coprire il fabbisogno di carne ovina. È altrettanto vero che l’Igp ci pone al riparo dal rischio di perdere l’esclusiva di questo prodotto, dal legame con l’Abruzzo. Del resto, come noto, già oggi la carne arriva in buona parte da fuori e tra un po’ arriverà anche già preconfezionata, nella forma dell’arrosticino già pronto per la vendita. E allora il rischio serio è che, prima o poi, l’Abruzzo, che non detiene la materia prima, perda l’esclusiva di questo prodotto, come del reto già successo con il pecorino”.
Dunque per Marcelli, “si potrebbe pensare di istituire subito l’Igp ma con l’impegno serio e concreto di un piano strategico sotto la regia della Regione, che abbia come obiettivo quello di decuplicare in tot anni, la produzione di carne di pecora in Abruzzo, per rendere possibile la certificazione Dop, che deve rappresentare in ogni caso l’obiettivo finale”
Del resto per Marcelli, “incentivare l’allevamento delle pecore in Abruzzo rappresenterebbe un investimento strategico di grande importanza, perché abbiamo pascoli a sufficienza, già un brand affermato e una tradizione. E nel frattempo ovviamente va contrastato con l’ignobile utilizzo solo virtuale dei pascoli, per ottenere milionari incentivi economici dall’Europa senza produrre nulla, da parte di soggetto estranei alla Regione”.
La pastorizia, per Marcelli, infatti, non è solo il passato e il presente residuale, ma può rappresentare il futuro dell’economia abruzzese.
“Decuplicare le nostre pecore, oltre un milione di capi, non è un obiettivo trascendentale. Significherebbe tornare al patrimonio che avevamo ante seconda guerra mondiale, quando c’erano molti meno mezzi e tecnologie a disposizione. C’è la possibilità di rendere questo lavoro attrattivo e appagante, con tutele e diritti, stipendi adeguati, e corsi di formazione per i giovani. Ogni 250 capi esprimono in mendia un posto di lavoro. Dunque fatevi fatevi i conti e l’opportunità che si aprirebbe anche dal punto di vista occupazionale”.