L’AQUILA – “Oggi gli Appennini sono considerati un’area interna, ovvero uno spazio periferico, un territorio depresso. Ma per secoli non lo sono mai stato, gli Appennini erano popolati, centrali nei flussi economici, fucina di invenzioni, con una forte mobilità stagionale della popolazione per svolgere vari lavori, che ha anche elevato il livello culturale. Le aree appenniniche non sono interne, sinonimo di ‘marginali’ rispetto ad altre, possono ritrovare questa ricchezza, la loro centralità, imparando dalla loro storia e adattandosi ai nuovi scenari”.
Una lettura originale, oltre gli incantamenti linguistici e pigri pregiudizi, quella che ad Abruzzoweb squaderna Augusto Ciuffetti, professore associato di Storia economica presso la Facoltà di Economia dell’Università Politecnica delle Marche e docente a contratto di Storia dell’Adriatico e del Mediterraneo e di Storia economica e sociale dell’età moderna “Cattedra Renzo Paci”, presso l’Università di Macerata. Autore di “Appennini”, fortunato saggio nato da una serie di incontri tenuti in varie località dell’Appennino maceratese dopo il terremoto che tra il 2016 e il 2017 ha colpito l’Italia centrale. Meritandosi poi la fama di “storico condotto”, come un medico di famiglia, assiduamente presente nei paesi terremotati del cratere sismico Marche, Lazio, Marco e Abruzzo.
A conferma di ciò Ciuffetti ha nei giorni scorsi ha tenuto una lezione a San Demetrio Ne’ vestini, in provincia dell’Aquila, nell’ambito del progetto Stai, iniziativa di Foresta Modello Valle Aterno ETS, il cui obiettivo è aumentare le competenze e gli strumenti del tessuto socioeconomico della Media Valle dell’Aterno e della Valle Subequana per sostenere la crescita del settore agrosilvopastorale, in collaborazione con Slow Food Abruzzo, il Parco Naturale Regionale Sirente-Velino, l’Università degli Studi dell’Aquila, il Gran Sasso Science Institute, le associazioni Orsa Maggiore Trekking e Ambiente e Te.Co – Territorio & Comunità, nonché con il patrocinio dei Comuni di Fagnano Alto, San Demetrio ne’ Vestini e Tione degli Abruzzi.
“Ho iniziato a occuparmi di Appennini una decina di anni fa – esordisce Ciuffetti – dopo il sisma del 2016, sono del resto originario di un paesino vicino Camerino e molti Comuni terremotati chiedevano alle università incontri per raccontare, capire e ritrovare la storia delle loro comunità, un aspetto molto significativo, perché ciò è avvenuto dopo che quelle comunità hanno vissuto un forte trauma. A conferma che guardando al passato si può trovare un orientamento per pensare, progettare un futuro di ricostruzione”.
E la storia degli Appennini racconta altro rispetto a tanti pregiudizi ormai sedimentati, nell’opinione pubblica, nel mondo accademico e anche in quello della politica.
“Se prendete l’asse del tempo che va dal medioevo al ‘900, questi territori sono stati centrali nella storia economica, solo dagli anni ’50 ad aggi si può parlare davvero di marginalità, e di progressivo spopolamento. Ma questa consapevolezza si è persa, e incide anche negativamente sul destino di questo territorio, crea demotivazione, pessimismo”.
Tanto per cominciare, “le vie di comunicazione correvano lungo la dorsale appenninica, che per secoli è stata una montagna abitata, centrale nell’economia della penisola. Le rese agrarie, come noto, nelle aree montane sono basse, e non bastavano all’autosufficienza, ed è da questo limite che sono nate soluzioni creative. I contadini non facevano solo il lavoro della terra, ma tanti altri mestieri, in compatibilità con il calendario agrario, come il boscaiolo, l’artigiano, il cardatore della lana, il venditore ambulante e così via. Le città sin dal basso medioevo non hanno potuto fare a meno del contado, di tutto quello che si produceva nelle terre alte, senza di esse non avrebbero avuto cibo, legna, acqua, e materie prime per le botteghe artigiane”.
Ma soprattutto “sono nati, dalla dissoluzione del sistema feudale, i beni collettivi, le comunanze agrarie, gli usi civici, che ha consentito anche al più piccolo contadino di poter utilizzare i pascoli per allevare qualche capo di bestiame, di rifornirsi gratuitamente di legna, di acqua, di castagne e di altre risorse messe in comune e questo è stato importante per integrare il reddito. Parliamo di un modello unico, specifico della dorsale appenninica, e in parte delle Alpi. Anche la transumanza si inseriva in questo modello, essendo i tratturi terreni di uso civico e il cui utilizzo era regolamentato, che definirono per secoli anche le reti commerciali, i flussi della ricchezza e dei mercati da nord a sud”.
L’uso civico insomma come un modello di welfare state ante litteram, fino a quando nel 1600 con la grande crisi, i possidenti e mercanti italiani che non reggevano più alla concorrenza del nord Europa, davanti al tracollo dell’export, si rifeudalizzarono, tornarono a investire nell’agricoltura, cereali in primis, e cominciarono a comprare e sottrarre anche molti terreni prima di uso civico.
“Ciò rappresentò – prosegue il professor Ciuffetti -, un duro attacco all’economia dell’Appennino. Ma l’Appennino ha resistito, reinventandosi, con la mobilità della popolazione: si cominciò ad emigrare in modo stagionale e temporaneo, per integrare il reddito, come braccianti nell’agro romano, nei grandi latifondi, in una nuova forma di transumanza. I boscaioli montanari si unirono in compagnie, e li ritroviamo negli arsenali navali, nei cantieri di Ancona e Civitavecchia. Idem i carbonai, che andavano a fare il carbone lungo tutta la dorsale appenninica, ma anche in Francia, in Sardegna, addirittura in Tunisia e Marocco. Erano montanari che attraversavano il mare e le famiglie povere gli affidavano anche i figli giovanissimi, per fargli guadagnare qualcosa, per fargli imparare un mestiere. O pensiamo ai mietitori, che facevano la spola tra pianura e montagna”.
E ancora, “tanti facevano i facchini per i mercanti che andavano a Nord, partendo o passando dall’Abruzzo o dalle Marche, trasportando la lana, lo zafferano, il cuoio, e altri prodotti della montagna appenninica, verso Firenze, Venezia e Milano, i grandi mercati del nord. Erano i carrettieri, che però non si sobbarcavano l’intero viaggio, ma facevano solo un tratto, per poi cedere la merce trasportata al collega carrettiere, staffetta dopo staffetta. E non dimentichiamoci dai musicisti, come gli zampognari e suonatori di organetti, dell’area molisana e abruzzese, che andavano a lavorare a Napoli e a Roma e si prestavano anche come modelli per i pittori”.
Insomma, è un mero un pregiudizio immaginare l’abitante del paese appenninico come stanziale, chiuso nelle suo borgo incastellato. Così non è stato per secoli e secoli.
“Una mobilità che però non faceva venir meno il senso forte di appartenenza: si stava via per mesi, ma poi si tornava – tiene a sottolineare il professore -, tornavano tutti, e continuavano a coltivare la terra, a restare legati alla loro comunità, al loro mondo. Muoversi stagionalmente aveva anche un grande vantaggio: ampliava l’orizzonte culturale, la conoscenza, molto più rispetto al mezzadro di pianura e di collina, che non si muoveva mai dalla sua proprietà e viveva lui sì in un mondo chiuso. Noti sono i poeti pastori e transumanti che leggevano Ariosto, ma ci sono anche i dati dell’alfabetizzazione che parlano chiaro: essa era molto più alta nelle montagne, rispetto alle pianure. E questo c’entra qualcosa anche con la fama di ribelle che aveva montanaro, che era evidentemente più libero, meno incasellabile, grazie anche ad un livello culturale più alto”.
Questo equilibrio si è spezzato solo nel secondo dopoguerra, dagli anni ’50: è da allora che davvero la popolazione degli Appennini è cominciata a diminuire, con l’emigrazione verso l’estero, e verso le città, senza più ritorno, si è spezzata la mutualità tra le città di pianura e paesi appenninici, le fabbriche e la pubblica amministrazione che aveva bisogno di manodopera in pianta stabile, ha svuotato progressivamente le montagne.
Aggiungiamoci pure che in vaste aree di pianura, ai piedi della dorsale appenninica, sottolinea Ciuffetti, “sono scomparse le campagne, e si sono affermati i nuclei industriali, limitando anche la possibilità di migrazioni stagionali dalle montagne come braccianti agricoli”. Insomma si poteva andare solo a fare gli operai, dicendo addio al paese. E ha inciso anche un fattore culturale: restare in montagna, continuare a fare il contadino nel pieno del boom economico, era da perdenti.
Eppure, osserva Ciuffetti, “la montagna ha resistito per secoli, non si è spopolata perché ha tenuto un modello economico tradizionale incentrato sulla pluri-attività, sulla mobilità stagionale, sugli usi civici, ed anche in tempi più recenti sulle rimesse degli emigrati definitivi. Picchi demografici li abbiamo registrati fino al 1921. Un modello descritto nel memoriale di un erudito umbro, in cui si dice che gli abitanti della montagne devono aguzzare l’ingegno, l’intraprendenza, e i villaggi vicini tra di loro non si devono fare concorrenza, specializzandosi in un determinato prodotto artigianale. Di carestia in montagna si moriva molto meno, grazie alla policoltura, alle castagne, alle erbe edibili, alla cacciagione di cui la montagna era ricca”.
Aggiungiamoci pure che tante invenzioni sono state fatte sugli Appennini: la prima gualchiera, che determinò una vera e propria rivoluzione industriale è attestata poco prima dell’anno mille in valle Peligna in Abruzzo, il moderno foglio di carta è nato a Fabriano, una invenzione paragonabile ad internet. I monaci benedettini hanno inventato le concerie. Il primo testo di letteratura, il Cantico delle creature di san Francesco d’Assisi è stato composto nel cuore degli Appennini, ancora una volta.
Il professor Ciuffetti rientra comunque nel novero degli ottimisti, per lui il trend si può invertire.
“Oggi occorre recuperare la consapevolezza che l’Appennino è uno spazio che ha una storia importante. Chi abita in montagna non è incasellato in uno spazio isolato, vanno recuperate relazioni economiche con gli altri territori, di montagna e di pianura, le metropoli, l’attivazione di reti lunghe e di prossimità. E’ una rete di equilibri che ha funzionato per secoli e potrebbe tornare a funzionare, a rendere possibile vivere e lavorare in montagna. Del resto il modello dell’operaio a vita sta declinando sempre di più. Una buona opportunità è offerta dal lavoro a distanza, dallo smart working, c’è l’artigianato e l’agricoltura di nicchia, che ha un mercato. La montagna può e deve essere un laboratorio, può rappresentare il futuro, in virtù della sua qualità ambientale, banalmente la disponibilità di acqua e terra diventerà sempre più preziosa”.
Conclude il professore: “un giovane è giusto che vada via da un paese, se arriva ad odiarlo, se si sente isolato e lontano dal mondo, ma sempre più giovani che vanno via, fatte le loro esperienze, poi tornano e un motivo ci deve essere, la città offre sempre meno una qualità della vita accettabile. L’Appennino va pensato come un laboratorio, dove potenzialmente si può dar vita a comunità meravigliose, incentrate sul mutuo aiuto e la condivisione di culture, saperi ed esperienze. Una nuova frontiera dell’abitare. Forse non siamo più in tempo, ma nulla depone a favore del non provarci”.