L’AQUILA – “L’Aquila può essere considerata una città ibrida?”: è questa la domanda che si pone Francesco Di Giandomenico, giovane laureato aquilano in Studi letterari e culturali all’Università dell’Aquila, all’interno di una più ampia riflessione per AbruzzoWeb sul capoluogo d’Abruzzo in fase di difficile ma affascinante ricostruzione post-sisma in cui batte il cuore del MaXXI, il museo d’arte contemporanea che ha trovato “casa” a Palazzo Ardinghelli come sede distaccata del Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma e che è stato inaugurato sotto il Gran Sasso il 21 giugno di due anni fa. Ad impreziosire la riflessione è un sonetto in dialetto aquilano dedicato proprio al MaXXI dell’Aquila.
Come i temi dei convegni erano incentrati sull’ibridismo della lirica e dell’epica in alcune opere fondamentali della letteratura europea, così anche il sonetto qui dedicato al MaXXI riguarda il tema dell’ibridismo linguistico-letterario e storico-sociale, in stretto contatto con la memoria e l’identità di una città in perenne ricostruzione.
A dirla con Pasolini, alla cui figura il MaXXI di Roma ha recentemente dedicato una mostra dal titolo “Tutto è santo. Il corpo politico” – oltretutto uno degli ultimi teorici della lingua italiana nonché grande esperto di arti visive nel secolo passato – parafrasando Coleridge affermava che la poesia dialettale è un paesaggio notturno colpito a un tratto dalla luce: in questo caso, la notte di un futuro incerto è illuminata dalla luce del passato certo, e L’Aquila può far da maestra. Dove il dialetto si presenta come quella ‘stortura linguistica’ che rende i parlanti più particolari in un mondo globalizzato, lì c’è la speranza di una rinascita più completa e al passo coi tempi seppur nell’illusione della verginità di un passato infantile sempre più decadente.
Riflessione – quella della studente aquilano – scaturita dal solco dell’ibridismo tipico anche dell’era postmoderna, facente però i conti con un passato difficile nella propria città, a cui – Di Giandomenico dedicherebbe i versi del Pasolini di ‘Le ceneri di Gramsci’: “ essere / con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere”.
Di Giandomenico – che ha già composto dei sonetti nel suo dialetto sul sisma del 6 aprile 2009, sul bar “Art Cafè” di Dario De Michele, sulla storica libreria Colacchi e su Karl Heinrich Ulrichs, pioniere del primo movimento omosessuale le cui spoglie si trovano al Cimitero Monumentale aquilano – è reduce da due importanti ed apprezzati interventi in due convegni esteri: uno, dal titolo “Tradiciones poéticas de la Romania. Lírica y cancioneros”, dedicato alla lirica romanza, che si è tenuto all’Università di Salamanca; l’altro, dal titolo “Cervantes Global-Global Cervantes”, dedicato alla figura di Miguel de Cervantes Saavedra, scrittore, poeta, drammaturgo e militare spagnolo, che si è tenuto all’Università di Princeton, negli Usa, una delle più importanti università del mondo.
A Salamanca, Di Giandomenico ha tenuto una relazione in lingua italiana dal titolo “‘Con disiderio di dire e con paura di cominciare’. La ‘Vita nova’ di Dante e le anomalie del genere poetico: un esempio di canzoniere ibrido nella tradizione lirica italiana”, mentre a Princeton ha discusso in lingua spagnola un intervento dal titolo “El viaje de la épica cervantina a través de la Comedia de Dante: una propuesta de análisis comparativo sobre el Don Quijote” (“Il viaggio dell’epica cervantesca attraverso la ‘Divina Commedia’ di Dante: una proposta di analisi comparatistica sul ‘Don Chisciotte’”).
L’AQUILA PUÒ ESSERE CONSIDERATA UNA CITTÀ IBRIDA?
di Francesco Di Giandomenico
Dunque, L’Aquila può essere considerata una città ibrida? Se per ‘ibrido’ s’intende ciò che proviene da una mescolanza di elementi variegati, allora L’Aquila è una città ibrida. Si hanno esempi significativi nella sua storia.
Si pensi a Celestino V, un Papa in una città in cui non ha sede la cattedra di Pietro – che, per definizione, è Roma: esempio di un ibridismo religioso, che mescola il potere della tiara romana con la semplicità della natura aquilana.
Si pensi anche all’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), dove si studiano le più piccole particelle della materia sotto uno dei più grandi massicci d’Italia, il Gran Sasso: esempio di un ibridismo scientifico, che mescola la perfettibilità della scienza con la complessità della meraviglia.
E poi c’è il MaXXI, il Museo nazionale delle arti del XXI secolo, che all’Aquila, a dodici anni dal sisma del 2009, apre una sede distaccata da Roma a Palazzo Ardinghelli, storico palazzo un tempo di proprietà della famiglia patrizia toscana dei banchieri Ardinghelli.
A due passi dalla Fontana Luminosa, tuttora si assiste anche a una sorta d’ibridismo temporale, perché proprio in piazza Santa Maria Paganica il tempo – per dirla con Proust – è parzialmente ‘ritrovato’: troneggiano infatti da una parte quelli che possono essere ormai considerati i ruderi della chiesa omonima – disastrosamente danneggiata dal sisma nonché chiesa capo quarto – e, dall’altra, questo sontuoso palazzo – uno dei simboli dell’architettura civile della città, che un tempo ospitava anche l’atelier di Teofilo Patini.
Si è di fronte a un esempio d’ibridismo artistico, che mescola il mito delle origini immote e remote – legato a un passato di corsi e ricorsi – e l’attesa della fine in continua metamorfosi – apoteosi di un’epoca fatta di cadute più che di rinascite.
In questo contesto emerge la necessità di ripartire dalle ceneri, come l’araba fenice: uno dei compiti dell’arte (forse) è anche questo. E la cosiddetta ‘arte contemporanea’ – davanti alla quale molte persone sono sedicenti inesperte – può dare delle risposte concrete ai desideri e alle paure che si celano in un mondo in penombra.
Non a caso si legge nella brochure di presentazione del MaXXI – “l’arte aiuta L’Aquila a illuminare il futuro” e consente di far “intrecciare reti a diversi livelli tra i protagonisti del contemporaneo e tra tutti coloro che operano nel multiforme sistema artistico e scientifico”.
“Il MaXXI L’Aquila – continua la brochure – punta a far dialogare arti visive, performance, fotografia, architettura e a realizzare attraverso le produzioni di artisti e creativi la sua missione istituzionale e la sua vocazione culturale e sociale”.
Con il concetto di visualità, inoltre, s’incastona bene la forma di questo palazzo, storico esemplare del barocco aquilano che – ironia della sorte! – sin dalla facciata si presenta asimmetrico: si e indotti a pensare all’errore, laddove il Barocco fa dell’errore (o meglio, dello stupore) la sua poetica in seno all’estetica del dettaglio.
Tra l’altro un errore può sembrare, leggendo il sonetto, l’appellativo di ‘barone’ al fantomatico signor Ardinghelli, ma nella logica del racconto funziona meglio: licenza poetica?
Sembra essere un errore anche il voler confondere il concetto di visualità con quello di visibilità ma, in questo momento particolare della sua ripresa, L’Aquila ha bisogno anche di questi dettagli.
Come anche il dettaglio del titolo del sonetto, “gliu MàCChesi”: la presenza, cioè, di un fenomeno fonetico tipico della parlata aquilana detto anaptissi vocalica, ovvero l’aggiunta di una vocale in seno ad un contesto consonantico.
Dovrebbe essere il modello guida del popolo aquilano nell’era postmoderna: ‘anaptittico’, che abbia cioè il coraggio di aggiungere piccoli suoni vocalici apparentemente inascoltabili nelle disarmonie consonantiche del suo contesto, stridenti ma necessarie per meglio eseguire lo spartito in totale armonia.
Proprio il MaXXI sembra essere una di quelle vocali necessarie e sufficienti per la buona riuscita di questa modesta proposta.