L’AQUILA – Dopo cinque anni di lavori di ristrutturazione, ha riaperto ieri le sue porte a L’Aquila la storica cantina de Ju Boss, in piazza Regina Margherita.
Tanta emozione tra gli affezionati avventori, rimasti orfani per tanto tempo del loro luogo di ritrovo, con la garanzia, da parte del titolare, Mariano Massari, figlio di Franco Massari, anche lui tornato dietro al bancone, assieme al genero Bruno, di “offrire il disservizio di sempre”. Ovvero buon vino a prezzi accessibili, uova sode, pizze farcite con frittata, salumi e formaggi, tavolo riservato per le agguerrite partite di tressette, scopa e briscola, una chitarra per chi vuole suonare, un clima familiare e popolare.
Nel segno del com’era e dov’era, senza concessioni al gourmet, all’interior design all’ultimo grido, ponendo massima cura però nel restaurare lo storico bancone di olmo, realizzato quarant’anni fa con legno proveniente da una chiesa calabrese. Più o meno identici gli spazi interni, l’unico vero ammodernamento ha riguardato gli impianti tecnologici ed i servizi sanitari. Tornati al loro posto, il campanaccio per far uscire in chiusura gli avventori, il cavatappi a muro e il torchio con le due seggiole.
Per festeggiare la tanto attesa riapertura offerti prosecco, vino, pizza con sfrizzoli e pane con olio.
La cantina ha aperto i battenti nel lontano 1931, grazie a Mariano Massari, minatore tornato dagli Stati Uniti, soprannominato “ju boss”. Padre di Giorgio e Franco Massari, storici gestori, e nonno di Mariano, che ora ha raccolto il testimone di una attività che si avvicina al secolo di vita.
Tanti i commenti sui social dei partecipanti all’inaugurazione. Una breve rassegna.
“Perché tante cose accadono, la vita passa e provoca effetti tangibili, si cambia dentro e fuori, le città mutano. Ma ci sono luoghi identitari, iconici, che resistono a tutto. Resistono alla brutale forza della natura, resistono ad una vacua modernità, resistono alle chiusure forzate”, scrive Roberto Naccarella.
Ricorda Cesare Ianni, del gruppo di azione civica Jemo ‘nnanzi: “Ci sono posti, nel nostro centro storico, in cui sono cresciute intere generazioni, sono luoghi identitari, unici. Io, personalmente, quando entrai la prima volta a ju Boss avevo sedici anni”. E ancora: “Quatra’ che ve porto?” ,”Fra’, nu litro e nà gazzosa”. Eccoli i tardi pomeriggi che ci vedevano da giovinetti seduti intorno ad un tavolo, quadrato, di quelli di legno vero, pesante, un tavolo fatto a mano da un abile artigiano, con gli angoli coperti da un pezzetto di latta, affinché chi poggiava la sigaretta sul bordo del tavolo non lo bruciasse. Sedevamo calmi e tranquilli e bevevamo lentamente il nostro “vino della casa” che ci veniva servito in una bottiglia buffa, con il collo che si rastremava in alto e si riapriva nella parte sommitale come un fiore. I bicchieri erano quelli classici, da “quartino”. Bevevamo lentamente, allungando il “vino della casa” con la gazzosa. E chiacchieravamo. Di politica, di impegno, di amicizia, di valori, di sogni, più raramente di ragazze. Intorno a noi c’era chi giocava a carte, chi alla morra, chi si accendeva in interminabili discussioni: studenti, operai, artigiani, impiegati, professionisti… non c’erano differenze, né distinzioni. Quanto stavamo bene. Non ne avevamo consapevolezza, ma avevamo il privilegio di vivere una serie di emozioni secolari, che giungevano a noi e sopravvivevano con noi, uguali uguali, fin dalle taverne romane. Ma il progresso avanzava, inarrestabile, e voleva le sue vittime, imponeva i suoi sacrifici. Però ju Boss ha saputo resistere, ed oggi riapre, “con i suoi disservizi” chiosa Mariano, in realtà con gli stessi servizi ai quali hanno attinto serenamente e senza eccessi generazioni di aquilani!”.
Scrive Emiliano Dante, docente e regista, “mio padre mi ci portava alla fine degli anni ’70, dopo le riunioni di partito. E già c’erano studenti, professori, artigiani, operai, militari, c’erano ricchi e c’erano poveri, alcolisti e sommelier, qualsiasi cosa. Poi al Boss ci sono andato una volta tornato a L’Aquila, negli ultimi anni di liceo. Poi ci sono andato durante l’università, ci ho fatto la festa di laurea, mi ci sono innamorato, ci ho vissuto di ogni. E ieri, alla riapertura, al Boss ho incontrato persone a cui voglio un bene enorme, ma che per un motivo o per l’altro non vedo spesso. E insieme a loro ho visto bambini – bambini per altro bellissimi – portati dai genitori esattamente come mio padre portava me. E trovo che questo sia in sé grandioso, ed è tanto più grandioso quanto più è in totale controtendenza rispetto all’andazzo generale, per cui i bambini devono essere separati il più possibile dal mondo degli adulti. Al Boss ieri ho rivisto L’Aquila per me, cioè la parte dell’Aquila di cui sono sempre stato profondamente innamorato. Un paesone? Un paesone. Ma un paesone straordinario”.
“Ho visto alcuni amici commossi questa mattina all’inaugurazione della cantina per eccellenza della nostra città. Dopo l’aperitivo mentre uscivo ho visto un gruppetto che discuteva gioioso, avvicinandomi ho visto Turilli, Pallotta, Paperino, Fabeaux, Stanislao, Callaghan (Giorgio Colagrande) con l’immancabile socio Claudio, Cococcetta e Sciaboletta. Mi sono fermato con loro a famme na’ tazza!”, scrive Marcello Manieri, in ricordo dei compianti avventori che non ci sono più. Filippo Tronca